Ricordo alcuni incubi fatti da bambina – io da sola di fronte al mio ritratto che mi faceva un sorriso pieno di denti; una vecchia scura che nel pieno della notte schiantava un martello sul tavolo di marmo della cucina, e l’allucinazione acustica in successione, il boato di un sasso millenario spaccato a metà. C’è un incubo specifico che per me è rimasto il numero uno, e in effetti lo è stato: il numero uno dei ricorrenti che si sono ripetuti per diciotto anni.
Il primo protagonista dei miei incubi ricorrenti è stata la mia tata, Rachele. Tata Rachele era – è ancora – una donna bassa, raccolta, con un collo sottilissimo, sottilissimi capelli biondi, e due seni enormi che facevano le punte alle magliette. Nel sogno, mi trascinavo noiosa da una stanza all’altra, e ascoltavo la sua voce altissima parlarmi sempre da una fonte diversa della casa, raccomandarsi mentre puliva la cima delle scale, rimproverarmi mentre stendeva i panni sul balcone. Nel sogno, finivo per pigrizia a cercare il gelato nel frigorifero della cucina. Al momento di procurarmi un cucchiaino, infilavo un braccio oltre la tenda che mia madre aveva sospeso di fronte ai ripiani in muratura, afferravo la cima del cucchiaino ma, tirando, era tata Rachele a scivolare fuori, era la sua mano gelida che io prendevo, un dito smaltato di rosso dopo l’altro, fino a capire che era morta e che qualcuno l’aveva nascosta nella credenza. Di chi era, allora, la voce che mi parlava come la mia tata?
Avrei poi sognato mia madre, mia sorella, mio padre, mai un conoscente, mai un’amica, mai altri: solo coloro cui era demandata parte della mia cura; sempre impegnati in attività quotidiane; sempre improvvisamente distanti, rigidi; sempre il terrore nel piegare le lenzuola, nel parlare fingendo che nulla fosse successo, nel trovare una scusa per sottrarmi; sempre i miei veri genitori, la mia vera sorella, sempre morti e impacchettati come vestiti negli armadi, nelle panche, nei mobili.
Ricordo anche bei sogni fatti da bambina. A sette anni ero un’onironauta senza saperlo: per una settimana avevo sognato, quasi ogni notte, di portare la mia sedia di plastica rossa in salotto e di accomodarmi; a un tratto il salotto diventava una chiesa enorme, di pietra gialla, con grandi finestre, tantissima luce. Nel sogno potevo volare, potevo scegliere come e in che direzione e quanto a lungo. Il sogno era così vivido che ne ho memoria come se fosse un ricordo. Era così vivido che da sveglia ci avevo provato davvero: avevo portato la mia sedia di plastica rossa in salotto, mi ero accomodata, avevo aspettato di prendere il volo mentre tata Rachele lavava le scale.